Pagine

lunedì 12 novembre 2012


dalla settimana INCOM del 17 marzo 1949




"Le Fraschette" 1942-1978
da campo di prigionia, a campo di concentramento, poi di internamento ed infine di raccolta profughi video realizzato dal prof Americo Tiberi



domenica 11 novembre 2012

Emilia Buonacosa


Emilia Buonacosa, trasferita da Ventotene a Fraschette perché considerata pericolosa per la sicurezza pubblica e dal punto di vista politico e sociale, rivendica i diritti suoi e degli altri.



Protesta scrivendo alla sezione confinati politici del Ministero degli Interni perché “…l’alimentazione è un’alimentazione di fame. Tutte le tessere sono state ritirate e per questo non si riceve neppure la metà di roba che ci spetta secondo la legge d’alimentazione in tempo di guerra. Ancora peggiore è il fatto che tutta la mazzetta di lire 9 -la quale ci spetta come confinate ed internate politiche- viene presa per due razioni di minestra uso acqua calda e per 100 grammi di pane. A noi non rimane nemmeno una lira per i nostri bisogni personali , per la frutta, della quale abbiamo assolutamente bisogno come di altra roba fresca.
(…) Facciamo presente che fra di noi la maggioranza non può ricevere nulla dalle famiglie e fra di noi ci sono delle ammalate di TBC, ammalate di stomaco di reni, cuore e quelle che hanno subito delle operazioni molto gravi e che devono continuamente curarsi. Noi tutte protestiamo energicamente contro questo trattamento e chiediamo la nostra immediata liberazione come confinate e internate politiche.
con osservanza in nome di tutte (8 slave e una italiana) Buonacosa Emilia, Confinata politica Fraschette 27/8/1943



http://www.igo900.org/res/SAGGIERECENSIONI/emiliabuonacosa.pdf

Milena Giziak

Milena Giziak, Slovena di Vertoiba, frazione del comune di Gorizia.

Fu arrestata con tutta la famiglia nel settembre 1942 perché aveva un fratello partigiano, rinchiusa in carcere (aveva solo 13 anni!) fino al marzo 1943, con cibo scarsissimo, così ricorda il suo internamento a Le Fraschette: Il Campo Le Fraschette era collocato in una conca disabitata, circondata 
da monti. Eravamo quasi solo donne. Il vitto era impossibile: un mestolo di brodaglia e un etto di pane al giorno e non vi era solo il problema della scarsità, ma anche quello della sporcizia rivoltante dei luoghi dove il cibo veniva preparato. Molti ricevevano dei pacchi dai parenti, ma noi non avevamo nessuno che ci potesse aiutare. Spaventose soprattutto le condizioni delle croate e delle greche, alle quali non arrivava mai nulla, tanto da essere costrette ad aggirarsi attorno ai bidoni della spazzatura della cucina, onde recuperare bucce di patate e qualche altro scarto. Nel complesso posso dire che il comportamento del Comando era corretto, non animato da ostilità verso le recluse. Il 25 luglio che aprì le carceri a tanti detenuti antifascisti, passò per noi inosservato. È soltanto dopo l’8 settembre 1943 che, verificatasi la fuga dei militari di guardia, il Campo venne a trovarsi così aperto, permettendo una prima fuga di quanti, avendone i mezzi, erano in grado di provvedere autonomamente ad allontanarsi dal posto. Una certa solidarietà - afferma la Giziak - veniva dai giovani soldati di guardia, i quali tolleravano le uscite clandestine delle internate per saccheggiare nelle campagne circostanti la frutta e quant’altro potesse attenuare gli stimoli della fame”.

 

Luisa Deskovic


Luisa Deskovic, Dalmata, fu arrestata per le sue idee politiche e confinata a Ventotene senza alcun processo. Nell’agosto 1943 fu trasferita a Le Fraschette.


“All’ingresso c’era il posto di polizia e tutto attorno era stata scavata una specie di trincea con ai bordi il filo spinato, però senza corrente elettrica. All’arrivo ci immatricolarono: cognome, nome, nazionalità, religione; ci dichiarammo Jugoslave ed atee, suscitando le proteste dei poliziotti. Ma la Dalmazia è in Italia ci dicevano, non sapendo distinguere tra nazionalità e cittadinanza. Il villaggio era costituito da baracche in compensato che dovevano essere freddissime in inverno. Anche a Ventotene mancava il riscaldamento, ma là i padiglioni erano in muratura e poi c’era il mare; fortunatamente era d’estate.
A Le Fraschette si trovavano in quell’epoca circa 4000 internati jugoslavi, in maggioranza donne e bambini, parenti di partigiani o  abitanti di zone in cui operavano i partigiani. Interi paesi erano stati sgomberati per impedire i rifornimenti ai ribelli, come li chiamava il fascismo. Non c’era mazzetta, sussidio giornaliero: due volte al giorno ti davano il rancio con la gavetta, una brodaglia su cui galleggiavano alcuni pezzi di zucca, qualche volta pochi grammi di riso. Non ho mai mangiato, né prima né dopo di allora, una roba tanto disgustosa.
A Ventotene avevo acquistato una grande esperienza su come, anche in condizioni disperate, fosse possibile e si dovessero difendere i propri diritti e dignità. Il giorno successivo al mio arrivo a Le Fraschette organizzai una delegazione di donne ed andammo in Direzione a protestare contro la mancata assegnazione di latte ai bambini. Dopo aver insistito a lungo fummo ricevuti; il caso volle che proprio quel giorno fosse presente un Ispettore, non so chi con precisione, insomma un personaggio venuto da Roma: parlai con veemenza, dissi che conoscevamo quali erano i nostri diritti e che se si ostinavano a negarceli ci saremmo rivolte alla Croce Rossa. Il giorno seguente ogni bambino ricevette una razione di latte.
Un’altra vittoria sul piano personale questa volta l’ottenni rivendicando il mio diritto ad un vitto migliore perché malata. Ci mandarono a fare le lastre radiologiche a Frosinone e in quell’occasione ebbi un vivace battibecco con un giovane ignorante poliziotto, il quale mi si rivolse con il tu e pretendeva che io gli dessi del voi: alla fine, non potendo averla vinta sul piano verbale voleva picchiarmi: dovettero intervenire due carabinieri a sedare la lite”.

Ivan Galantic

Ivan Galantic - Professore emerito di Arte alla Tufts University negli USA

“Primavera 1941 la Germania attacca la Yugoslavia, Un giorno una nave da guerra italiana attraccò al piccolo porto del mio villaggio Malinska. Il capitano della nave disse: "Sono venuto in nome di Vittorio Emanuele III re di Italia ad occupare questo villaggio”. Il responsabile del Porto chiese:”In nome di chi?“. "In nome di Vittorio Emanuele III, capito?“Capito Signore”.
Tutti avevano capito che eravamo stati occupati da una forza straniera e che saremmo stati governati da un regime oppressivo.
Non passò molto tempo che mi ritrovai ad essere trasferito dalla prigione locale a un campo di concentramento in Italia.(…)
Dopo l’8 settembre, noi prigionieri del campo Fraschette ci ritrovammo liberi. E senza cibo. L’Unica consolazione veniva dall’udire i colpi di cannone degli Alleati che combattevano a Cassino, che noi aspettavamo da un giorno all’altro. Ma passavano i mesi
 e la vita era difficile senza cibo. I contadini che vivevano nelle montagne intorno al campo non erano molto felici di vederci li intorno. Infatti i tedeschi avevano fatto sapere loro che chiunque avesse aiutato i prigionieri politici sarebbe stato fucilato. (…)
Io ero sempre molto affamato. Alla mia età qualche uovo o un frutto caduto non erano certo sufficienti. Un giorno di fine ottobre decisi che dovevo mangiare. Scelsi la casa di un contadino , che era isolata con l’intenzione di rubare qualcosa da mangiare. Aspettai fino a che la famiglia si fosse riunita per cenare. Quando vidi attraverso la porta aperta che la pietanza era stata portata in tavola , entrai. Sul tavolo basso c’era un piatto di legno fatto a mano che conteneva una pasta di granturco che si chiama polenta, con sopra della cicoria condita con aglio e olio. C’erano 6 o 7 persone intorno al tavolo e tutte mangiavano dallo stesso piatto.
Li salutai e chiesi un po’ di acqua perché avevo sete. Loro mi guardavano senza rispondere. Avevo tenuto tutto il tempo gli occhi sulla polenta, con la chiara intenzione di affondarvi entrambe le mani, prenderla e scappare. Preso in queste considerazioni, con gli occhi sempre incollati sul pasto caldo, sentii le parole più belle della mia vita, accompagnate dal rumore di un altro sgabello avvicinato al tavolo e di un’altra forchetta che si piantava nella polenta. Non in Dante, nemmeno in Shakespeare e nemmeno nel Vangelo si possono trovare parole più belle , anche se pronunciate in un dialetto molto marcato:”che po fa’, pur’iss è figlie de mamma”.


In quella casa di contadini ho avuto testimonianza del più grande valore che l’uomo possa conoscere. Ho visto la bontà.”

Campo "Le Fraschette" - Alatri

La storia del campo Fraschette di Alatri è la sintesi di mezzo secolo di storia dell’Europa e del nord Africa, che è trascorso vicino a noi, ci ha sfiorato, senza che la nostra gente di Alatri ne abbia colto la reale portata. Ben pochi, infatti, si sono resi conto di chi siano stati gli “ospiti” e del perché condotti proprio a Fraschette: comunque di quanto dolore sia stato versato nel Campo, perché tutti, buoni e meno buoni, erano stati costretti a lasciare la Patria, la casa, la famiglia, gli amici, gli affetti.


Il campo di concentramento Le Fraschette entrò ufficialmente in funzione il 1° ottobre 1942 per perseguire, attraverso un massiccio trasferimento di popolazione, una "bonifica etnica"
Arrivò ad ospitare fino a 5500 internati, tra cui molti bambini ed anziani, i quali, vissero in condizioni disagiate a causa della carenza di cibo, medicinali e vestiario. I primi ad arrivare furono gli anglo-maltesi residenti in Libia, poi iniziò il trasferimento di civili provenienti dalla Venezia Giulia, dalla Slovenia, dalla Dalmazia e dalla Croazia. A questi si aggiunsero alcune centinaia di confinati politici. Gli internati arrivarono a Le Fraschette con le poche cose che erano riusciti a portare con sé, pochi bagagli a mano presi all’ultimo istante dalle proprie abitazioni durante le concitate fasi del rastrellamento effettuato dalla polizia militare italiana.
Subito dopo la fine della guerra, il Campo fu interamente ricostruito e venne utilizzato per l’internamento degli “stranieri indesiderabili”. Il governo italiano aveva disposto l’identificazione e l’internamento dei profughi “indesiderabili”: criminali di guerra, criminali comuni, collaborazionisti, ustascia, ecc.. Tale fatto comportò che spesso si trovarono ad essere discriminati anche esuli istriani, stranieri senza documenti, rifugiati d’oltrecortina ai quali non era stato riconosciuto lo status di rifugiato politico.
Dagli anni ’60 inizia l’ultima parte della storia del Campo Le Fraschette. Una storia che è legata alla fine del colonialismo, quando nazioni come l’Egitto, la Tunisia e poi la Libia decretarono nazionalizzazioni ed espulsioni degli immigrati europei.
Questa sorte toccò, ovviamente, anche a molti nostri connazionali che vennero ospitati nel Centro Raccolta Profughi di Alatri.
Fu in questo periodo, infatti, che il Campo Le Fraschette entrò nella sua “terza fase”: i capannoni furono ristrutturati e resi più fruibili, pronti ad ospitare gli italiani che vennero rimpatriati, ad ondate, per un decennio almeno.